Sul carcere c’è un dispendio di intuizioni e creatività a dir poco sbalorditive, le ricette per guarire il malato penitenziario sono molteplici e miracolose, come quelle usate con i migranti o rifugiati che dir si voglia, con gli operai licenziati, con gli altri dimezzati in lista di attesa, infine con i giovani, permanentemente in retrovia, arenati al palo dell’attesa più vana. Costruire nuove carceri, sulla terraferma, in mezzo al mare, magari, perché no, su qualche pianeta sconosciuto come lo è per molti il carcere italiano.
A breve quindi cancelleremo l’articolo 27 della nostra Costituzione, lo sostituiremo con qualcosa di talmente innovativo da seppellire definitivamente quanto scritto dai padri costituenti.
Personalmente non credo a una società liberata dal carcere, per esperienza come somma di tanti errori, mi viene da dire che il male c’è, esiste, occorre farci i conti, dunque il castigo e la punizione cammina di pari passo con la possibilità di ri-conquistare la propria dignità, di riparare al male fatto, passaggi questi che stanno a radice profonda degli scopi e dell’utilità dell’impianto penitenziario italiano.
Per ritornare a essere uomini nuovi occorre partire da una premessa, dal riconoscimento di quell’esigenza di giustizia che sale alta da parte delle vittime, unicamente da questo inizio sarà possibile intravedere nuove opportunità di riscatto, di riconciliazione, di riparazione.
Essere dalla parte delle vittime non significa escludere aprioristicamente la riparazione, anche là, dove a volte l’unica forma di riparazione possibile è il perdono.
Non credo al giustificazionismo di comodo, neppure a un male che sana altro male, per esperienza e non per sentito dire, conosco il carico devastante del male e come una lucida follia non possa essere sanata da una pena sorda e cieca. richiamare l’oppressione della recidiva, la violenza, l’ingiustizia che alberga in una prigione, è troppo facile e riduttivo, occorre invece diventare sistematici analitici: i tossicodipendenti andrebbero locati nelle tante comunità terapeutiche non in una galera, essendo del malati da curare e non solo castigare.
Gli extracomunitari devianti riaccompagnati nelle prigioni del proprio paese, ce lo insegna quanto fatto in Libia, volere è potere.
Per ultimo la popolazione detenuta autoctona con bassa pericolosità sociale, avviata in percorsi di lavoro di pubblica utilità ad hoc, come da tempo accade nel laboratorio dove svolgo il mio servizio, e in molte strutture pubbliche e private.
Più difficile e quindi costruttivo per la collettività, fare sicurezza davvero, rimodulando una scala di valori che favorisca revisione critica, alternative plausibili a vincere quel male, non certamente per alimentarne dell’ulteriore.