C’è chi viene ammazzato e ritrovato soltanto qualche giorno dopo, come a dire che la carenza di personale non consente attenzione, cura, quella famosa e bistrattata buona regola della vita anche dentro una cella. In ogni convegno, tavola rotonda, incontro sul tema carcere, professionisti del diritto, operatori sul campo da decenni, voci ben intruppate in fila per tre, ho l’impressione che vorrebbero azzardare in coerenza e coscienza una risposta alla violenza, illegalità, ingiustizia che alberga in un istituto penitenziario. Ma al dunque che ci dicono? Che mancherebbe l’acqua calda, non ci sono i bidè, e come collante a tanta lungimiranza la carenza di personale. Sono vecchio e l’alzheimer mi morde il collo, seppure a fatica rammento però che dentro una cella un nuovo orientamento esistenziale, può essere raggiunto unicamente operando con lo strumento dell’educare, non con la solita reiterata tergiversazione per impedire la comprensione, la possibilità di una parete di vetro, dove osservare quel che accade, o purtroppo non accade per niente, perché il diritto è sottomesso e violentato dal sovraffollamento, dagli eventi critici, dai problemi endemici all’Amministrazione. Ricordo bene che il rispetto per il valore di ogni persona ha urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una condizione quotidiana da raggiungere attraverso l’esempio di persone autorevoli, anche là, dove incombe lo spazio ristretto di un cubicolo blindato, là dove non dovrebbe mai essere annientata la dignità del recluso.
Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono dimenticate nella propria solitudine, se i parenti delle vittime se la passano peggio dei colpevoli, occorre davvero fermarci a riflettere, e non rimanere indifferenti a una prigione ridotta dapprima all’ ingiustizia dei fatti e poi delle parole. Se la galera costringe deliberatamente alla sopravvivenza e quindi alla violenza, non è certo a causa della mancanza di acqua calda, ma perché non ci sono i presupposti per un ripensamento culturale sulla pena e sulla sua utilità e scopo, non ci sono regole chiare su cosa significhi applicare quelle norme, e se tali norme e regolamenti sono davvero applicati, o vegetano nell’impossibilità di avvicinarsi a una emancipazione sostanziale da quella sopravvivenza. Come ho più volte detto c’è urgenza di chiederci quale persona entra in un carcere, e quale “cosa” ne esce, quale trattamento ha ricevuto quella persona, se oltre alla doppia punizione impartita, ha avuto possibilità di imparare qualcosa di positivo, o se invece rieducazione sta più semplicemente a un mero copia incolla.
A proposito di carcere e di belle parole
